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Archive for marzo 2010

Eravamo a San Pedro, un’oasi marrone nel deserto più arido del mondo.

Uno strano posto, al centro del nulla. Eppure dietro le insegne dei ristoranti che si affacciano sulle strade polverose si scoprono locali alla moda degni delle vie di Parigi.

A San Pedro hanno luce, telefono e persino internet (fino alle 10 di sera mi pare di ricordare). Eppure la notte, se ti capita di guardare in sù, ti dimentichi di essere su questo pianeta, quasi inghiottito da quel cielo stellato che sembra stia per crollarti addosso. Forse era solo la suggestione di una cittadina abituata ad un cielo abbagliato dalle luci della città, ma io il soffitto di San Pedro me lo ricorderò per sempre.

Dormivamo in un piccolo ostello,  gestito da una signora e il giovane figlio, un nanerottolo (dai, era alto come me) sorridente e ciarliero, che ci aveva raccattato alla fermata dell’autobus al nostro arrivo a San Pedro. Come fanno molti gestori di hotel e pensioni o semplici affittacamere , si era presentato alla stazione dei bus col suo bel baschetto in testa per vedere di accapararsi qualche turista.

A noi ci aveva convinto subito a seguirlo. Un po’ per la sua faccia allegra, un po’ per il prezzo bassissimo che ci offriva, un po’ perchè io dopo ore e ore di viaggio in preda alla nausea per la sbronza di pisco procuratami poco prima della partenza avrei seguito anche un gesuita in ritiro spirituale  se mi diceva che mi faceva fare una doccia.

Lì  facemmo base per qualche giorno ed esplorammo la zona del deserto di Atacama, che in mezzo alla desolazione delle rocce nude nasconde meraviglie della natura insospettabili.

Una notte ci svegliammo alle 4, sgattaiolammo fuori con addosso tutti i vestiti che avevamo nello zaino. Perchè di giorno si evapora, ma di notte è freddissimo.

Saltammo sopra la jeep di un cileno silenzioso e dalla guida inquietante. Attraverso sentieri sconnessi, a balzelloni nella notte, ci inerpicammo su per le Ande. Poco prima dell’alba, giunti a quota 4.200, ci fermammo in una fumosa piana infernale, disseminata di pozze d’acqua bollente, che al sorgere del sole si scaglia verso il cielo in impetuosi getti bianchi.

Erano i geyser di El Tatio, el abuelo que llora. Gli occhi della terra, che scossa dalla furia della natura, piangono verso il cielo.

Io il Cile l’ho sognato da quando ero adolescente, china sulle pagine dei libri di Coloane, Allende, Sepulveda e Neruda. Alla fine ci sono stata, a zonzo per un mese, con lo zaino in spalla. Non abbastanza per vederlo tutto e per capire le mille peculiarità delle popolazione che lo abita. Ma abbastanza per sentirlo un pochino mio.

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